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04/05/2025 18:10:00

Quando la competizione non è sana e diventa patologica: la Sindrome di Procuste

In psicologia la "Sindrome di Procuste" indica quella patologia che descrive una profonda sofferenza in chi non tollera il successo dell'altro, che si traduce in espressione di disprezzo, svalutazione, odio e azioni per ostacolare il successo o il raggiungimento di un obiettivo di chi presenta maggiori capacità e talento.

Quante volte capita nella vita di incontrare chi usa manovre anche nascoste per fare uno sgambetto a chi sta per raggiungere un traguardo? Ebbene la psicologia, riconosce nel personaggio mitologico di Procuste, questo comportamento, che era un brigante e locandiere che permetteva ai viandanti di dormire nella propria locanda solo a patto che le loro dimensioni corrispondessero alla stessa misura del letto che possedeva. Così, amputava gli arti di chi aveva dimensioni maggiori e stirava quelli di chi era più piccolo. L'orrore dell'atto nascondeva un ulteriore sadismo, dettato dal fatto che in realtà lui possedeva due letti, quindi nessun viaggiatore avrebbe mai avuto le caratteristiche per salvarsi. Per questo, la psicologia oggi attinge a questa narrazione per descrivere chi, provando un odio inconsolabile, non tollera le caratteristiche, i talenti o il successo degli altri e li ostacola, al punto da divenire persino distruttivo quando si sente in competizione.

La competizione, infatti, può essere rappresentata da due opposti lati della stessa medaglia, portando sia al vissuto di emozioni positive, sia negative. Vi sono persone che provano sentimenti distruttivi, non essendo in grado di paragonarsi all'altro in modo sano. Chi soffre della Sindrome di Procuste, teme sempre che l'altro sia migliore, ossessionato dall'idea di poter essere sempre sostituito, sia sul lavoro, sia nelle relazioni affettive. Spesso non tollera lo stress del confronto e della competizione, ha una scarsa empatia e cerca delle scorciatoie più comode per rimanere nella sua situazione di privilegio. Per questo preferisce annientare l'altro piuttosto che farsi scegliere per le proprie abilità, arrivando a seminare zizzania o diffamando. L'espressione del disprezzo è la punta di un iceberg, la cui parte sommersa è costituita da una grande insicurezza e fragilità, che però non diventano un bisogno di apprendimento, ma un desiderio di annientamento.

Esiste una competizione sana, che è caratterizzata dalla propensione al miglioramento personale in cui l'altro è il metro di misura per giocare una sfida migliorativa con se stessi. Essa diviene un motivo di progresso costante e include anche l'ammirazione per il successo altrui, che divirne una fonte di ispirazione, anziché un oggetto da eliminare. Nella competizione malsana il successo altrui è insoportabile, e così è certamente sempre basato sul confronto con gli altri, ma caratterizzato dal solo desiderio di primeggiare a tutti i costi, utilizzando qualsiasi mezzo. Il sentimento di sconfitta che scaturitebbe dal sentirsi perdente o superato, sarebbe intollerabile.

Riprendendo il concetto di competizione sana, essa può essere educativa nel momento in cui può portare a superare le proprie incertezze ed i propri limiti, migliorando la rappresentazione di sè e l' autostima, che se solida non porterà ad una futura competizione patologica e aggressiva o ad una iper-competizione.
Solitamente, i terreni di confronto e competizione possono essere la scuola, l' ambito sportivo, quello lavorativo, ma non solo, tante volte la competizione può caratterizzare le relazioni affettive.

L' iper competitività, può essere descritto con le seguenti caratteristiche:
- sentirsi costantemente in guerra con gli altri ed in una gara senza tregua.
- paura di vivere il fallimento,
vivendo in una condizione di ansia perché in ogni circostanza, anche la più conviviale, fino allo scontro o all'abbandono della situazione.
- vissuti di rabbia e frustrazione intollerabile, comportamenti aggressivi o autolesionistici a causa di una fisiologica battuta d’arresto durante il percorso verso gli obiettivi
- sviluppo di forme depressive causati dal mancato raggiungimento dei risultati prefissati.

La competitività ha delle caratteristiche ben precise e chi è competitivo, solitamente tende ad essere ambizioso e dominante, si comporta in modo determinato usando metodo costante, è orientato al successo, porta a termine le sfide, cerca continue novità, dedica molte ore della giornata per il raggiungimento dei risultati.
In psicologia il concetto della rivalità è antico e S. Freud, padre della paicoanalisi, ne parla nel Complesso di Edipo, secondo cui nel bambino agiscono pulsioni di rivalità nei confronti del genitore dello stesso sesso, che viene considerato un rivale nella conquista dell'amore del genitore di sesso opposto. Secondo Freud, sembrerebbe che vi sia, così, una predisposizione dell’essere umano alla competizione distruttiva, che va educata e veicolata verso il “sano” confronto che rappresenta una modalità evoluta. Così, per evitare un funzionamento patologico della futura persona adulta, è importante concludere con il suggerimento psicoanalitico di educare sin da piccoli al sano confronto, per esempio iniziando con un dialogo che include i diversi punti da rispettarsi, oppure l'utilizzando giochi che includono piccole sfide educative in cui, a turno, si perde e si impara, insieme all'adulto, a tollerare le frustrazioni. Inoltre, è importante valorizzare le qualità proprie di ogni bambino, evitando che cresca per imitazione dell'altro e contemporanea castrazione delle proprie abilità naturali.

Anna Maria Tranchida, psicoterapeuta
 



STUDIO VIRA | 2025-04-09 10:50:00
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